GUERRA E PACE: SOPRATTUTTO LA PRIMA

GUERRA E PACE: SOPRATTUTTO LA PRIMA

Evidentemente, i venti di guerra che a fatica diminuiscono, come dimostra il processo di pace in UCRAINA  portano con sè un cielo carico di nubi anche su altri versanti. La sommossa recentemente intervenuta in SERBIA, le difficoltà del processo democratico in ROMANIA, qualche instabilità in TURCHIA,  si legano all’incerto procedere del resto d’Europa stretto tra i due principali attori: gli STATI UNITI e la RUSSIA, con la CINA sempre sullo sfondo. Per citare ancora ISRAELE, dove la popolazione comincia, forse, ad averne abbastanza di B. Nethaniau.

Basterebbe questo per renderci inquieti. Ma non è così.

Sempre gli  STATI UNITI, consegnati dai Democratici a Donald Trump, mirano ad una espansione territoriale, chissà,  in Groenlandia -oggi danese- o nel Canada, per emulare l’omologo Vladimir Putin.

Le risultanze parziali dell’ultimo Consiglio d’Europa dimostrano inequivocabilmente come il costante ricorso all’intervento diplomatico possa invece avere positivi effetti. Il ritardo con il quale si arriva a questa determinazione ha nel frattempo prodotto due anni ulteriori di conflitto bellico con migliaia e migliaia di morti.

Ora, la questione del riarmo europeo necessaria non come fine a se stessa ma per il mantenimento della coesistenza pacifica, esclude di dover fronteggiare all’infinito la contrapposizione alla Russia di Vladimir Putin -autentico invasore ed eversore- con l’esclusivo invio di armamenti all’Ucraina.

Ritorna quindi il tema della necessaria cessione di sovranità dei singoli Stati aderenti all’U.E., condizione prima per la riuscita di qualsiasi processo o efficace intervento comune. Siamo comunque ancora indietro se la questione è ridotta agli apporti finanziari richiesti a ciascuno Stato ed alle modalità attraverso le quali si abbia accesso a finanziamenti UE. In questo senso la posizione dell’Italia può definirsi positiva.

Non altrettanto la polemica innestata dalla Presidente del Consiglio Meloni come manovra diversiva attorno ai contenuti del “Manifesto di Ventotene”, ritenuto a ragione – per chi scrive – pietra miliare della moderna Europa.

La  lettura di una o più espressioni che non tenga conto del contesto  storico cui ci si riferisce, come si è rivelata quella della Presidente Meloni, non ha valore alcuno, come non lo hanno le isteriche reazioni di certa sinistra.

Abbiamo sempre un modo originale con il quale distinguerci.

ANDREA G. STORTI

UNA PACE INTRISA DI TERRORE ovvero “una rondine non fa primavera”

UNA PACE INTRISA DI TERRORE ovvero “una rondine non fa primavera”

Le ultime vicende internazionali inducono a ritenere che si stia toccando il fondo.

Il conflitto bellico Russia-Ucraina è comunque, con ogni probabilità, vicino all’epilogo.

L’assenza della politica sta portando con sè una parziale rivisitazione dell’ordine mondiale con tre attori principali: gli Stati Uniti, la Cina e la Russia. Niente di più, in una logica esclusivamente suprematista. Questa la lettura che Volodimir Zelensky non ha, evidentemente, ancora compreso dimostrandosi non so se dittatore, certo politicamente incapace. Doveva trattarsi della sottoscrizione di un accordo legato allo sfruttamento di minerali pregiati a parziale restituzione dei fondi americani concessi a suo tempo a Kiev ed esclusivamente investiti, purtroppo, in dotazione di armi. Si è trattato di una angosciante commedia  in diretta planetaria, mai vista prima.

Apriamo, peraltro, una parentesi dedicata a J.D. Vance, vicepresidente degli Stati Uniti, che si è dimostrato nel corso del suo intervento conclusivo l’arrogante zero politico assoluto che ci auguriamo non possa in futuro tracciare alcun solco della sua esistenza.

Per il momento emerge, ancora una volta, la figura di Vladimir Putin, dittatore ed aggressore sanguinario che ha, oggi,  dalla sua Donald Trump preso in un coacervo di timori in possibile versione russo-cinese. In questo quadro il paese dell’Ucraina conta zero e non andrà da nessuna parte abbia o meno al suo fianco l’irrilevante Unione Europea, incapace di una posizione significativa.

Tre anni di guerra sono costati migliaia  e migliaia di morti in un crescendo spaventoso la cui prossima fine decreterà la conquista russa di alcune terre ucraine non immensamente ricche, che saranno umanamente cancellate nel tempo. Viene alla mente un marine statunitense morto a 21 anni combattendo  nelle fila dell’esercito ucraino che esemplifica l’inutile forza ucraina nel terrore provocato dalle grandi potenze.

Un Paese aggredito che sognava di entrare nella NATO dovrà accontentarsi di una presenza non certo importante nel contesto internazionale, sottoposto ad una intesa conclusiva – capestro dei peggiori- in un ruolo del tutto marginale senza poter incidere, fors’anche presenziare alla costruzione dei futuri, possibili scenari. Le luci della ribalta sono e saranno di altri e lo si sapeva.

E la bandierina italiana? Persa nel fumo di questo conflitto che lascia una scia di terrore ammantato di pace.

ANDREA G. STORTI

 

 

A VOLTE RITORNANO, A VOLTE CADONO

A VOLTE RITORNANO, A VOLTE CADONO

Il 20 gennaio prossimo Donald Trump giurerà nuovamente come Presidente degli Stati Uniti d’America. La vittoria alle scorse elezioni presidenziali si è rivelata importante ed indiscutibile. L’incertezza palesata, secondo le ultime rilevazioni sondaggistiche, in sette importanti Stati si è risolta a favore del Partito Repubblicano, senza alcuna ombra ad offuscare il risultato finale.

Tuttavia va considerato l’involontario concorso dei Democratici alla vittoria trumpiana.

Prima di tutto la candidatura di Joe Biden, Presidente uscente, si è rivelata un grande errore politico e strategico insieme. Il successivo ritiro ha ulteriormente appesantito la situazione, anche se è parso chiaro a tutti che l’esito elettorale volgeva verso la figura di Donald Trump. Una diversa  speranza alimentava, invece, la proposizione di Kamala Harris. Tuttavia questo intendimento si è rivelato  una tardiva ed ultima espressione della difficoltà dei Democratici nel superamento delle vecchie logiche e diverse sensibilità ancora presenti all’interno del partito. Esso è tuttora ancorato a figure dell’establishment del tutto superate o, come nel caso degli Obama, non più rispondenti alle necessità dei tempi. Le persistenti frizioni tra chi ancora oggi  personifica una visione politica più progressista (Ocasio Cortez  e Sanders, per esempio) e  l’ala meno aperta alle istanze sociali, alcune delle quali del tutto nuove ha costituito il blocco di ogni ulteriore velleità, con il concorso della veterana Nancy Pelosi che, come è noto, avrebbe preferito una figura di candidato diverso, espressione delle più avanzate istanze territoriali coincidenti con la figura di Governatore dei più importanti Stati. Peraltro, storicamente mai la carica di vice Presidente ha goduto di grande considerazione politica con le sole più recenti eccezioni di Lindon B. Johnson – democratico- e Gerald  Ford -repubblicano –  che hanno forzatamente sostituito JF. Kennedy e Richard Nixon.

Uno degli scogli che D. Trump incontrerà immediatamente nella sua presidenza concerne la situazione in Medio Oriente. In quest’area si registra la caduta di Assad in Siria dopo 53 anni caratterizzati da una sanguinaria dittatura. Basahr El Assad guidava la Siria dal 2000 passando attraverso i rapporti con la Libia di GHEDDAFI,  L’Iran di KHAMENEI, la Cina di XI JNPING in ordine cronologico. Il rapporto  con la Russia di V. PUTIN si rivelerà decisivo. Con un’occhio alla Turchia di ERDOGAN.  La preoccupazione è notevole anche alla luce dei recenti conflitti bellici.

Occorrerà comprendere se la situazione generale virerà verso un prevalere dell’ideologia musulmana o se le istanze del nuovo regime apriranno ad una forma di regime moderato assolutamente necessaria in un’area geografica particolarmente difficile.

ANDREA G. STORTI

L’elogio della follia

L’elogio della follia

Ricorre, nella giornata del 7 Ottobre, ad un anno esatto di distanza, il tempo dell’attacco di Hamas al cuore di Israele costato migliaia di morti che ha dato il via ad una terrificante escalation bellica che ha – per il momento, ci auguriamo- soppiantato qualsiasi volontà diplomatica, ammesso che quest’ultima sia effettivamente presente. Il corso degli avvenimenti sembrerebbe suggerire il contrario.

Partiamo dai punti fermi: a) il diritto della Palestina ad uno Stato proprio,  che -tuttavia- non potrà avvenire sino a quando la presenza dei palestinesi risulterà inquinata dalla prevalenza di Hamas; b) il diritto -in questo caso- di Israele alla difesa dei propri confini, senza che questo debba significare per forza di cose un ulteriore spargimento di sangue; c) il tentativo, perpetuatosi nei decenni,  delle milizie della stella di David di occupare altri territori: penso, per esempio, al martoriato popolo libanese; d) il ruolo della Repubblica islamica dell’IRAN, ricettacolo di fanatismi religiosi incontrollati e dove il fronte democratico fatica a progredire; e) l’assenza di una reale presenza dell’ONU –   e dell’Europa –  bloccate entrambe da diritti di veto anacronistici in campo sociale ed economico; f) l’incrocio dell’Iran con la FEDERAZIONE RUSSA, impegnata a recuperare i fasti dell’Unione Sovietica, così giustificando un atro tentativo di egemonia, quello nei confronti dell’Ucraina, peraltro guidata da uno statista improbabile nella persona di V. Zelensky; g) a chiudere: quale potrà essere il  ruolo degli Stati Uniti d’America, sinora impacciato nell’attesa di conoscere l’esito delle prossime elezioni presidenziali del 5 novembre.

Al di là dei punti fermi, poichè gli accadimenti camminano sulle gambe degli uomini non possiamo che constatare questa ventata di follia che pervade i protagonisti dell’attuale scenario internazionale. Da Vladimir Putin a Benjamin Nethanyau, il Presidente iraniano Khamenej, nonchè Donald Trump che troviamo in rampa di lancio. Alcuni si sono macchiati di crimini orrendi soprattutto dei confronti dei civili, altri interpretano la gestione del potere come una condizione del tutto personale.

La situazione appare a dir poco pericolosa. Occorrerà non essere spettatori inermi.

ANDREA G. STORTI

L’alba di Kamala Harris

L’alba di Kamala Harris

Il vento ha, abbastanza improvvisamente, cominciato a spirare a favore dei democratici. Nei passaggi che si sono succeduti dal 27 giugno, data del primo dibattito tra i due sfidanti nella corsa alla Casa Bianca, la disastrosa performance di Joe Biden, oggettivamente non più presentabile, ha dato il via al pressing democratico che ha portato al suo passo indietro ed alla candidatura della sua vice Kamala Harris. In questo ha avuto un ruolo determinante la  ex speaker della Camera, Nancy Pelosi, acerrima oppositrice di Donald Trump, il quale si sta sempre più caratterizzando per ergersi, ancora una volta a paladino dell’ordine ed -in realtà- seminatore di odio- come ha dimostrato a tempo a Capitol Hill. Oggi egli continua a rappresentare l’America razzista e sessista che permea i suoi elettori.

Per  parte repubblicana del resto soltanto Condoleezza Rice – non a caso, donna e nera- Segretario di Stato ai tempi del governo di GEORGE W. BUSH- ha conseguito un certo seguito e successo.

Californiana, di madre indiana e padre di origini giamaicane, vissuta a Berkeley, laureata in politica, economia e legge, ex procuratrice distrettuale della stessa California, nel gennaio 2021 Kamala Harris è divenuta vicepresidente degli Stati Uniti. Si è presentata a Milwaukee in uno degli Stati più importanti considerati dai principali sondaggi in bilico tra Repubblicani e Democratici, il Wisconsin.

In realtà l’operazione che potrebbe portare la prima donna alla Casa Bianca rianimando l’elettorato democratico sino a poco fa decisamente sonnolento e pessimista, è chiamata, prima di tutto ad evitare gli errori commessi nel recente passato dall’allora candidata Hillary Clinton, cui va il merito -nonostante la sconfitta- di avere avviato positivamente il processo della definitiva emancipazione politica delle donne americane.

Kamala Harris pare sulla buona strada.

Si tratta, forse, di regalare un nuovo sogno ai democratici e – prima di tutto – alle democratiche d’America. Un sogno costituito di parole chiave: noi e non io, libertà, speranza, opportunità e futuro. Ha contro un politico vecchio ed aggressivo e, come abbiamo già visto, capace di tutto. Ma il genere non può essere il metro con il quale giudicare un candidato.

E sta recuperando.

Non più espressione soltanto dell’ormai superato establishment dell’Asinello, -le parole di Barack Obama e Bill Clinton sono state comunque importanti, così come quelle  di Michelle Obama-, ma anche della base rappresentata dal non più giovane Bernie Sanders e dall’eterna aspirante Alexandria Ocasio Cortez e nella scelta del candidato vicepresidente, Tim Walz, – governatore del MINNESOTA, possibile portatore dell’elettorato bianco negli Stati in bilico,  il quale sostiene che Trump non sa che cosa sia il servizio. Egli è invece portatore dei valori appresi in famiglia e trasmessi ai suoi stessi studenti.

Il 71 % degli americani non conosce Tim Walz, ma a tre mesi dal voto per la Casa Bianca il ticket dei Democratici si è trasformato. Può accadere di tutto.

ANDREA G. STORTI